mercoledì 4 maggio 2016

OLTRE I CONFINI DEL TEMPO - SESTA PUNTATA

CAPITOLO 6


S
i svegliò dopo una notte particolarmente agitata, passata a rigirarsi nel letto. Non sapeva che ora fosse, ma il sole era già alto. Ne scorgeva la luce accecante filtrare attraverso le pesanti tende alle finestre.
     All’improvviso udì qualcuno bussare alla sua porta con insistenza. Si tirò su a sedere e gracchiò un invito a entrare. Si sentiva ancora un po’ intontita dal sonno, ma ben decisa a non darlo a vedere.
     La cameriera, la stessa che il giorno precedente l’aveva aiutata a fare il bagno e a vestirsi, entrò nella stanza con un gran rumore di passi. – Signorina dovete alzarvi! – disse, negli occhi un’ondata di panico. – La contessa è su tutte le furie! Dice che non ha intenzione di lasciarvi dormire tutto il giorno come una scansafatiche.
     Scansafatiche?
     Avrebbe voluto vedere lei, al suo posto. Trovarsi in un altro tempo, in mezzo a gente con abitudini completamente diverse dalle proprie… e in una casa lugubre come quella, che con ogni probabilità era infestata dai fantasmi. Non che credesse ai fantasmi. Ma come giustificare tutti quei rumori che l’avevano tenuta sveglia la notte?
     Sbuffò, saltando giù da quel letto che sembrava un mausoleo. – Arrivo. Giusto il tempo di lavarmi e vestirmi.
     La cameriera, che se ben ricordava si chiamava Gina, la fissò come se avesse appena detto un’eresia. – Volete lavarvi di nuovo? Ma avete fatto il bagno ieri!
     Sara restò con le braccia a mezz’aria, nell’intento di sfilarsi la camicia da notte. – E allora? In questa casa non si usa lavarsi ogni giorno?
     Non aveva intenzione di trascurare la propria igiene e ritrovarsi a puzzare come una capra.
     Gina andò a recuperare lo stesso fastidioso abito che le aveva fatto indossare il giorno precedente. – Nossignora! Sarebbe un vero spreco e una gran fatica per noi poveretti che dobbiamo trascinare secchi d’acqua calda su per le scale, per riempire la vasca.
     Suo malgrado si sentì in colpa. Non aveva idea che fare una cosa semplice come un bagno caldo comportasse un così duro lavoro per i servitori. Rimpianse la doccia di casa sua, soffocando un gemito di frustrazione.
     – D’accordo, niente bagno. Mi laverò come meglio potrò usando la bacinella e l’acqua che è rimasta nella brocca. Questo mi è consentito?
     – Certo, signorina.
     – Nel frattempo tu vai ad avvisare l’arpia… voglio dire la contessa… che scenderò fra poco.
     Gina represse un sorrisino e obbedì all’istante. Era certa che anche lei non avesse in simpatia quella donna arcigna, tutta vestita di nero, che sembrava un corvo. Sara sospettava che portasse anche sfiga.  

* * * * * * * * * *

Riuscì a lavarsi, utilizzando un po’ del bagno schiuma da viaggio che portava nello zaino. Poi si vestì, indossando sotto l’abito infernale la sua biancheria e cioè un paio di slip con un reggiseno coordinato. Indubbiamente più comodi di quel bustino che pareva uno strumento di tortura. Tanto chi le avrebbe mai guardato sotto il vestito?
     All’improvviso la mente le rimandò l’immagine di Giulio, come l’aveva visto la sera prima: gli occhi con le pupille dilatate solo per averle guardato le caviglie. Le si strinse lo stomaco e il cuore riprese a battere più veloce al solo ricordo. Se aveva reagito così per una caviglia nuda, cosa avrebbe fatto se gli avesse permesso di dare una sbirciatina sotto al vestito?
     Ricacciò indietro quel pensiero malvagio.
     Non si fa, Sara. Scordatelo!
     Infine indossò l’abito di mussola color indaco, abbottonando come meglio poteva quel numero infinito di bottoncini. Non aveva mai riflettuto su quanto l’invenzione della zip fosse stata utile per le donne del futuro, ma quel giorno ne ebbe la prova. Poi si infilò gli stivali, scartando le scarpine che le avevano prestato il giorno precedente. Sembravano quelle di una ballerina classica. Davvero orripilanti! Le mancava il tutù e poi sarebbe stata perfetta per esibirsi davanti alla contessa madre.
     Soffocando una risata, mise il naso fuori dalla porta. Sbirciò nel corridoio per controllare che non ci fosse Giulio nei paraggi. Non voleva incontrarlo. Era ancora parecchio imbarazzata per il bacio che si erano scambiati nel suo studio.



     Scese le scale in punta di piedi, cercando di non fare rumore. Arrivata davanti alla porta della saletta della colazione, accostò l’orecchio. Le avrebbero servito il pasto anche se era così tardi? Se lo sarebbe preparata da sola, ma non aveva la più pallida idea di dove fosse la cucina e quella casa era talmente immensa che avrebbe rischiato di perdersi, se si fosse messa a vagabondare.
     Le parve di udire delle voci concitate all’interno e aprì lentamente la porta, pregando che non si mettesse a scricchiolare. Per fortuna non lo fece. Pur sapendo che spiare non era educato, si mise in ascolto. La voce tonante di Giulio la fece sobbalzare. Pareva in collera.
     – Non ho intenzione di prendere moglie. Quindi rassegnatevi, madre.
     La cosa si faceva interessante. Sara si sporse un poco per riuscire a vedere. Giulio era seduto a un tavolo rotondo, con il giornale aperto e negli occhi un’espressione torva. Sua madre era in piedi davanti a lui e si torceva le mani. – Figliolo, sai bene quanto me che è tuo dovere sposarti e dare un erede al casato. Finora ti sei divertito come hai voluto. Sparivi da casa per intere settimane, mesi a volte, e non mi sono mai intromessa. Ma portare qui quella sgualdrinella è stato decisamente troppo. Quanto pensi che ci metteranno le voci a diffondersi per la città?  Le famiglie benestanti cominceranno a tenere lontane da te le loro figliole in età da marito. Sarebbe una tragedia!
     Lui inarcò un sopracciglio. – Dipende dai punti di vista. Per me sarebbe una vera fortuna, invece. E comunque Sara non è una sgualdrina.
     Ben detto!
     Come osava quella strega? Nemmeno la conosceva e già si permetteva di giudicarla!
     Si protese per riuscire ad ascoltare meglio. Adesso la contessa aveva tirato fuori il suo fazzolettino di pizzo per asciugarsi gli occhi.
     – Vuoi forse negare che te la porti a letto? – chiese, in un tono lamentoso che la irritò profondamente.
     Giulio la fulminò con lo sguardo. – Certo che lo nego! Non riesco a crederci, madre. Non è da voi usare un simile linguaggio.
     La contessa ebbe la decenza di arrossire. – Chiedo scusa, figliolo. È solo che non capisco perché tu ti voglia ostinare a ospitare qui quella ragazza. Mi ha detto di essere sola al mondo e di non avere un tutore che si occupi di lei. Probabilmente appartiene a una famiglia caduta in disgrazia ed è alla ricerca di un buon partito da sposare. Ha un bel visino, lo ammetto. Ma è al di fuori della tua portata. Tu meriti di meglio.
     La risata di Giulio riecheggiò nella sala da pranzo. – Siete fuori strada, madre. Quella ragazza non ha mire matrimoniali su di me, ve lo posso assicurare.
     – Come puoi esserne certo? Le fanciulle in età da marito sanno essere molto astute. Solo il fatto di essere riuscita a farsi ospitare in casa nostra mette tutti noi in una posizione imbarazzante. Tutti si chiederanno…
     Giulio sbatté il giornale sul tavolo. – Basta! Non mi interessano i pettegolezzi e dichiaro conclusa questa discussione. Non voglio sentirne parlare più, mi avete capito?
     La contessa arretrò di un passo, come se il figlio l’avesse schiaffeggiata. Beh, se lo sarebbe meritato! Poi, mormorando una frase di commiato, si diresse verso la porta.
     Sara fece giusto in tempo a richiuderla e ad allontanarsi. Si mise a sedere su una poltroncina nel corridoio, alzando sulla donna uno sguardo innocente, al suo passaggio. La vide irrigidirsi.
     – Desidero parlarvi, Sara. Immediatamente.
     Lei sospirò. Addio colazione!

* * * * * * * * * *

La contessa madre la fece accomodare nella biblioteca, in un’ala del palazzo che ancora non aveva visitato. La stanza era enorme, con intere pareti ricolme di libri. Sara avanzò verso una sedia, i passi attutiti dal magnifico tappeto persiano che ricopriva il pavimento. Aveva colori sgargianti che passavano dai toni del rosso vermiglio a quelli più tenui del giallo paglierino. Si sedette, senza staccare lo sguardo dagli occhi ferini della contessa, augurandosi che non avesse in serbo per lei l’ennesima ramanzina. Non ne poteva più di quella donna polemica e impicciona.
     – Mi dispiace di essermi svegliata tardi, stamattina – disse, prevenendo qualsiasi lamentela da parte sua. – Non ho dormito bene stanotte, ma non accadrà più. 
     – Lo spero bene. Se volete restare in questa casa dovrete rendervi utile. Mio figlio è un ingenuo, ma io non mi lascerò ingannare facilmente.
     Sara deglutì. – Cosa intendete dire?
      – Intendo dire che ripagherete la nostra ospitalità con il vostro lavoro.



     La contessa si avvicinò a una corda che pareva penzolare dal soffitto. La tirò e un campanello risuonò nei corridoi. – La nostra governante vi mostrerà cosa dovete fare. È tutto chiaro?
     In realtà nulla le era chiaro, ma annuì per non contraddirla. Desiderava fare tutto quel che era in suo potere per evitare discussioni con la padrona di casa e per non essere di peso.
     La porta si aprì e una donna bassa e rotondetta entrò a passo di marcia, protendendosi in un inchino. La contessa ricambiò il saluto con un rigido cenno del capo e poi tornò a posare lo sguardo su di lei. – Questa è Sara – disse in tono severo. – È desiderio di mio figlio che venga accolta in questa casa. Trovatele qualcosa da fare. Qualsiasi cosa.
     Sara osservò quella che doveva essere la governante con aperta curiosità. Vestiva con un abito di cotonina color grigio topo e portava i capelli, anch’essi grigi, tirati in una rigida crocchia sulla nuca. Non dava l’impressione di essere una persona cordiale, anzi tutto il contrario. Le sue pulsazioni accelerarono mentre si sentiva squadrata da cima a fondo, a sua volta.
     – Come desiderate, signora contessa – rispose la donna, dopo quell’attento esame. Sara si alzò in piedi, asciugandosi le mani sudate nella gonna dell’abito. Poi la contessa posò un ultimo sguardo su di lei. – La signora Matilde, la nostra governante, si occuperà di voi. Eseguirete i suoi ordini alla lettera, avete capito?
     Sara annuì di nuovo. – Sì, signora.
     La contessa le rivolse un sorriso tirato. – Bene. Potete andare, ora.

     Capì che avrebbe dovuto seguire la signora Matilde e attese che si avviasse, prima di uscire e richiudere la porta alle sue spalle. Il suo stomaco brontolò per la fame, ma lo ignorò. Avrebbe mangiato più tardi. Forse avrebbe scoperto dove si trovava la cucina, dopotutto.

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